“A sangue freddo” è un film sullo scrittore Truman Capote (Capote lo pronunzierei come si scrive, dato che è un cognome di origine cubana, mentre gli anglo-americani e gli snob lo pronunziano leggendo “i” la “e” finale) e la vicenda che gli sconvolse l’esistenza: l’incontro con due assassini che per pochi dollari avevano sterminato una famiglia e che erano stati condannati a morte, nell’America della metà del secolo scorso. Il film mi interessava molto, perché di Truman avevo letto quasi tutto, a cominciare da “A colazione da Tiffany” fino a “Preghiere esaudite”; tra l’altro in esso si rivela completamente il senso della sentenza scritta nella intro di quest’ultima opera (qualcosa tipo “costano più lacrime le preghiere esaudite che quelle non esaudite”). La pellicola, molto realistica e biografica, ce lo illustra molto bene: Truman legge quest’articolo di cronaca nera sui due giovani assassini e decide di conoscerli per scrivere una specie di romanzo-verità con il quale inaugurare un nuovo genere letterario (che definisce no fiction novel). Senonché nasce un sentimento molto complesso nei confronti di uno degli assassini, l’affascinante mezzo-indiano Perry Smith. Truman si identifica con lui, perché è un outsider come lo è stato lui per la sua omosessualità prima di diventare uno scrittore famoso. Questa identificazione è alla base anche del suo innamoramento, che però deve essere sublimato perché possa portare a compimento l’opera letteraria della sua vita. Del resto sarebbero impossibili sviluppi di altro genere perché si tratta di un carcerato morituro. Grazie alla sua fama di scrittore e alle sue interviste in carcere, in preparazione del libro che deve scrivere, Capote riesce a rimandare per anni la condanna a morte dei due killer. Ma quando si rende conto che sta sfruttando una triste vicenda esistenziale che coinvolge più persone (le vittime e i condannati a morte che lui usa spietatamente per la stesura del suo romanzo), non riesce più a sopportare la piega che sta prendendo la vicenda; tuttavia cinicamente si rende conto che per terminare il suo libro deve pregare ormai che la sentenza venga eseguita. Fin quando il rapporto con Perry non si concluderà con l’impiccagione di costui, egli non potrà mai scrivere il finale del suo romanzo. Quindi non fa più niente per evitare la loro condanna, cade in uno stato di profonda depressione in cui l’unico conforto sono i superalcolici e alla fine assiste all’impiccagione struggente del povero Perry che fino all’ultimo aveva contato sul suo aiuto per salvarsi. Ma Truman non si riprenderà mai più da questa vicenda, perché la morte di Perry è come se paradossalmente avesse ucciso la sua metà più vitale, quella non mondana, quella più autentica. E anche quella più genuinamente marcia: l’outsider boy della provincia americana che per emergere non si tira indietro di fronte a nulla e morirà per le conseguenze dei suoi abusi alcolici. Stupenda l’interpretazione di Philip Seymour Hoffman, sempre in bilico tra il birignao più affettato e il mimetismo stravinskijano d’alta scuola. La ricostruzione della società letteraria newyorkese e del rapporto di Capote con Harper Leigh, autrice de “Il buio oltre la siepe” è efficace e convincente. Le critiche che sono state rivolte al film dai professionisti e che ho letto si dividono in due tipologie fondamentali: quelle secondo le quali il complesso mondo psicologico di Capote non è stato reso in modo soddisfacente (e quindi sarebbero stati necessari, presumo, dialoghi più narrativi o una regia più esplicativa) e quelle secondo le quali invece il regista con la telecamera ha fatto uno splendido lavoro di sottrazione, sfocando nei momenti cruciali e lasciando immaginare allo spettatore quello che si agitava nel cuore dello scrittore. A me preme mettere in evidenza un’altra caratteristica di questo film: la decostruzione dello stereotipo del gay carino e disponibile, fondamentalmente buonista (in realtà icona a uso e consumo del buonismo) anche se vittima del pregiudizio degli altri. Qui Truman appare realisticamente simile a quanto doveva essere nella realtà, da quanto mi sembra si possa arguire dai suoi stessi romanzi e da varie sue dichiarazioni: un gay col pelo sullo stomaco, uno che non si fa scrupolo di illudere un condannato a morte estorcendogli la sua amicizia solo per scrivere un libro che gli darà il più grande successo, e che spera che muoia quando ormai è d’intralcio al suo progetto (le famigerate preghiere esaudite) con le sue speranze di salvezza. Tuttavia a una lettura più profonda, e del film e della vita di Capote, le cose dovettero svolgersi in maniera più complessa. Il rapporto con Perry doveva essere di odio e amore, ed è difficile accettare un’immagine di Capote tutta forgiata sul cinismo efferato, dato che lo scrittore morì, si può dire precocemente, per le conseguenze di suoi eccessi alcolici. Inoltre le preghiere esaudite sono proprio quelle che fanno piangere di più, secondo quanto affermava Truman, e la degradazione dello scrittore dopo la pubblicazione del suo romanzo forse si spiega proprio col fatto che non riusciva più a convivere con la propria immagine, che lo disgustava, e che era ridotta ormai a un infimo livello la stima che pur doveva aver avuto di sé quando era riuscito a riscattare la propria omosessualità dai pregiudizi della sua epoca.
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