METACRITICA
Si inaugura oggi una nuova rubrica in questo blog: Metacritica, una critica a quanto di pseudocritico produce la riflessione attuale sui giornali. Inauguriamo il primo numero con l’Espresso.
METACRITICA1
ESPRESSO 9 MARZO 2006
Articolo:
"Supermarket olimpiadi"/Giorgio Bocca/pag. 15
Prima considerazione: la titolazione binominale o similnominale di molti articoli del settimanale ormai è strendy (ex.: elezioni western, brivido Scorsese, laboratorio Genova, potere chic, grand tour Paul Aster; titoli tratti solo dall’ultimo numero dell’Espresso). Fa molto radicalkitsch (il radicalkitsch è la mutazione genetica subita dal radical chic una volta divenuto fenomeno di massa), tuttavia si stima che continuerà a essere usata per la sua economicità comunicativa, anche se ormai è una marchietta® (del r.k., appunto).
Nell’articolo in questione, il Giorgio multi ex, reduce dalle invettive partenopee esposte nell’ultimo libro (chissà quanto ha guadagnato sulla vendita dei mali di Napoli) se la prende con le Olimpiadi definite come “circo equestre…baraccone e non competizione mondiale”, e rivangando i fasti dell’immediato dopoguerra con le gare delle pattuglie militari degli alpini, lamenta che “adesso anche le donne portano in spalla fucili di precisione con apparecchi di puntamento da film di spie”. Avrebbe fatto bene a non nominare proprio come sport olimpico una gara bellicista come quella del “fondo più tiro con i fucili di precisione”. Meglio il circo equestre e i salti mortali che l’esaltazione, anche indiretta, della guerra. E questo risentimento very out nell’ “adesso anche le donne”? Embé ssì, caro Bocca, le donne adesso fanno questo e molto altro. Quando si è sostenuta la loro emancipazione per procurare più voti alla sinistra e più forza lavoro al capitale non si prevedeva l’espropriazione del potere simbolico del fallo; ora questa espropriazione te la sparano in diretta anche in tele e anche alle Olimpiadi. E i poveri maschietti sono patetici a recriminare. Specialmente quelli di sinistra che pacifisti non lo sono mai stati, al massimo hanno voluto che lo fossero gli Americani.
Articolo:
"Paura di volare"/Claudio Rinaldi/pag. 69, qui il direttore maximo auspica la nascita del partito democratico in Italia come rivincita per tutti i “sinistrati” dal berlusconismo. Ma ancora una volta – si paventa – siamo alla mimesi dell’exemplum anglosassone, nel riproporre un bipolarismo che funziona per quella cultura, per quella mentalità e farne il solito calco italiota. La sinistra italiana se vuole volare deve produrre una visione originale (!Zapatero! docet), non scopiazzare (nemmeno Zapatero). Ma dato che i centri di elaborazione di un pensiero politico originale non sono sovvenzionati (per il vetusto concetto dell'egemonia culturale...non è che cacci fuori la pistola nazista quando si sente parlare di cultura, ma non caccia fuori nemmeno i soldi, la nostra classe dirigente) o sono sovvenzionati in funzione di, id est per produrre copie e non originali, siamo all’eterno punto morto.
Ma il meglio di questa settimana è in "La tv ha ucciso la tv"/Paolo Landi/pag. 128 in cui il direttore immagine di Benetton (un “uomo pubblicità” ) spara ad alzo zero contro la “pura e potente macchina pubblicitaria” (ha paura che gli faccia concorrenza?) della tele supportato dalla crociatina antispot di Beppe Grillo (ve lo ricordate quando pubblicizzava uno yogurt?). E allora, direbbe Maurizione. Meglio “Tutto quello che fa male ti fa bene” di S. Johnson (peraltro controcitato da Landi e trattato in un precedente articolo di questo blog). Questa pseudocritica pelosa e demagogica, con tanto di dedica alla prof steineriana del figlio che aiuta a rimuovere l’apparecchio dal salotto, è francamente stomachevole, imbastita com’è sui soliti luoghi comuni (i bambini, la lettura, le merci, il consumismo etc.). Si sa che la tele è 90% pubblicità (io dico 100%), Markette ce lo ricorda quasi tutti i giorni qualora lo dimenticassimo. Ma è la vita stessa che è una pubblicità, nella società dello spettacolo. La televisione ne è la superficie riflettente. E poi, meglio l’ideologia o il fumo televisivo come droga per le classi subalterne? Il secondo dà più soddisfazioni e non delude come le promesse di un mondo migliore della prima. Se l’ideologia è una merce, per lo più indigesta, perché non preferirle l’oggetto consumistico che almeno appaga? In sintesi un buon esempio di radicalkitsch, ovvero la ritrita visione progressista della realtà a uso delle masse (vorrei vedere la casalinga di Voghera alle prese con la prof steineriana del figlio che si prende il disturbo di fare la domestica e con il suo stipendio o con l’abbonamento a un teatro decente per seguire la stagione lirica o il balletto invece del reality). Ancora una volta sottovalutazione culturale del trash con quella puzza sotto il naso dell’intellettuale fuori dalla realtà che vuole educare le masse con Proust quando le rare Verdurin le trova a fatica nella sua classe sociale (se non ricoprono proprio nella tele ruoli dirigenziali) e il popolo preferisce le ruspanti Lecciso o gli pseudocontadini de La fattoria.
Sottotraccia, ancora una volta il pregiudizio che la complessità e tutto ciò che viene dall’alto debba essere normativo, che una sinfonia di Beethoven anche se addormenta la sensibilità postmoderna più della morfina sia meglio di una svisata di Hendrix, che andare a sonnecchiare in teatro sia meglio che guardare Markette etc. etc. Insomma, le multiformi tentazioni della gramsciana egemonia culturale che nega, in fondo, la libera circolazione di ogni forma espressiva, con il suo falso mito dell’impegno (a essere infelici?) e con la tecnica ricattatoria dei sensi di colpa per ciò che sarebbe culturalmente degno. La nuova sinistra avrebbe bisogno di molta più autocoscienza, e se non ci riesce da sola ben venga un Fagioli a psicoanalizzarla, dato che accetta il mercato e poi rimuove la televisione dal salotto. Una nuova, originale, visione sociopolitica dell’Italia non la si avrà certo grazie alla televisione. Ma nemmeno senza. La palingenesi antropologica lasciamola ai filosofi (cfr. Platone), i proletari da educare alla rivoluzione non esistono più in Italia, se non come simulacri di ideologie scadute. La funzione della televisione (anche di quella pubblica) non può essere pedagogica (altrimenti si rischia il grande fratello orwelliano e non quello marcuzziano).
Che il troppo stroppia (in quasi ogni cosa che riguarda il quotidiano) lo sanno tutti, e il buon senso è il toccasana contro ogni eccesso e ogni dipendenza, mediatica quanto ideologica. Risolvetevi le crisi d’astinenza da rivoluzione cominciando a rivoluzionare voi stessi come individui (studiate il buddhismo, per esempio, invece della solita sbobba cattocomunista), cari intellettuali di sinistra. Forse vi verranno idee più originali sui compiti che spettano a una moderna classe dirigente (amministrazione e non paideutica, elaborazione sociale genuina e non copia e incolla, presa di coscienza della realtà della società dello spettacolo e non linee di fuga inseguendo tentazioni in fondo da neo-minculpop). Prima che ci pensi la destra.
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