OGGI HO LETTO
“Cocaina”, nome della droga personificata in amante o viceversa, in una scandalosa (all’epoca) antiprosopopea, è il terzo romanzo del piccolo scoiattolo (questo è il significato di petit gris, da cui ha ricavato il suo nom de plume).
Romanzo di “sformazione”, storia di un’Italiano a Parigi all’alba del Ventennio, non ne troverete mai, probabilmente, nemmeno un brano in un’antologia della letteratura italiana, quand’anche fosse la più spregiudicata.
“Con le nari dilatate e l’occhio acceso si protendevano avide, anelanti sulla scatoletta di polvere bianca, come i naufraghi si contendono un angolo di scialuppa” – è la descrizione di un gruppo di tossiche francesi in un locale parigino nel primo quarto del secolo scorso. Il crack non era stato ancora ideato, ma la coco faceva già i suoi proseliti, con le loro “mani attratte, come intormentite dal dolore, mani dalle dita ossute, pallide, adunche, che si chiudevano a pugno, fino a configgere le unghie nelle palme per soffocare un urlo o per attutire un desiderio, o per dare diversa foggia al dolore, o per localizzare altrove il martirio”. Dannunziano, filogeno (“La donna è un prisma di cristallo attraverso il quale si debbono guardare le cose per trovarle belle”), spia fascista, dandy à la Nordau che poi si convertì al cattolicesimo, lo scrittore che fece arrossire la mamma di Eco e le sue coetanee e che oggi ci fa solo sorridere, al quale il semiologo ha dedicato un piccolo studio, gioiello paradigmatico di come la sinistra abbia esercitato nei decenni post-fascisti la sua egemonia culturale: spesso senza censura apparente – con ironia di puntuto fioretto – , Pitigrilli è come una flûte di champagne ammuffito e impreziosito da un po’ di polvere bianca sui bordi. Ebrezza (si noti la “b” sgeminata) d’antan, gusto belle époque, oggi improponibile nella cultura di massa perché politically very uncorrect – ma confidando nel g psicometrico, chissà che un giorno la Jervolino Rosa Russo, cessate le sue velleità di sindachessa, non ne reciti alla Rai qualche passo in una trasmissione à la Pivetti, sarebbe mooolto postculturale – odiato dai fascisti ma stimato abbastanza dal gran capo testa di moro (Gadda), Pitigrilli oggi fa a stento arrossire la punta di un glande avvizzito in piena deboscia neodecadente, con l’aiuto di qualche potente stimolante. Trascrivo un pezzo della conversazione del protagonista Tito con un rabbino, mentre si viaggia su un piroscafo lungo la rotta Europa-America del Sud: “(Rabbino): ‘La cosa più difficile non è conquistare la donna, è lasciarla.’
‘Errore!’ ribattè Tito. ‘L’uomo non lascia la donna, ma si mette nelle condizioni di essere lasciato. Se però ci sono casi eccezionali in cui il maschio vuol rompere le catene, c’è un mezzo infallibile, per ritirarsi elegantemente, ed è questo: dire alla donna, con tono minaccioso, a bruciapelo:
‘Tutto che cosa?’ si meravigliò il rabbino.
‘La donna più innocente, credete a me, ha sempre, nel suo passato prossimo o remoto, qualche colpa che può essere quel tutto a cui alludete voi’.” (un po’ come il proverbio attribuito ai Cinesi sul bastonare costantemente la moglie quando la sera si ritorna a casa perché lei sa perché, no?). E poco più avanti (sono sempre Tito e il rabbino che parlano): “Il rabbino di Varsavia era un uomo simpaticissimo. Rise alla caricatura della Bibbia che Tito gli fece in uno di quei suoi periodi di esaltazione cocainica, e gli spiegò che i denari raccolti in America servivano a ricostruire il regno di Israele in Palestina, per ricondurvi gli Ebrei sparsi per il mondo. ‘E anche voi andrete a stare in Palestina?’ domandò Tito.
‘Io no;’ rispose il rabbino ‘io sto troppo bene a Varsavia.’
‘Ma le persecuzioni, i pogrom…’
‘Storie!’ rispose ridendo il rabbino. ‘Sono voci che mettiamo in circolazione noi, ebrei polacchi. Facciamo credere che in Polonia gli ebrei stiano male, per non lasciarne venire altri.’ ”. Qui il famoso umorismo ebraico si cortocircuita in una autogiustificazione della shoah, che ci lascia perplessi, visto che il nostro è autore anche di un romanzo dal titolo “Dolicocefala bionda”… Cattiva coscienza dell’Italia littoria, cattiva coscienza dell’Italia gramsciana, Pitigrilli è stato difficilmente gestibile sia a destra che a sinistra, e per questo è stato rimosso. Io mi sono divertito a leggerlo, sans blague. Come ammette anche il maestro supergalattico Umberto. Mi garba ora regalarvi un suo neologismo: “barbusseggiare” ovvero guatare with voyeuristic intention (presumo coniato sul nome dello scrittore francese antinazionalista Barbusse); e questa piccola perla d’artefatto Proust – una tosca madeleine da intingere nell’assenzio, senza sobbarcarsi l’onere di leggere la Recherche: “(Tito) salito nella sua camera al Napoléon Hôtel, tolse dall’ostensorio l’ostia farmaceutica, che profanava indegnamente quella sacra cosa, e vi sostituì la fotografia di Cocaina, completamente nuda.
Aperse un cassetto per posarvi le urne cinerarie e ne trasse una boccetta di ‘Avatar’, il profumo di Cocaina. In potenza evocatrice i profumi superarono la musica stessa.
Applicò alla boccetta il vaporizzatore e inondò tutta l’aria della stanza come per offrire un sacrificio pagano degno dell’immagine.
Cocaina entrò all’improvviso, mentr’egli, immobile, contemplava le linee della sua nudità, in atto di muta venerazione; ella non disse nulla, ma fu così commossa, che, buttato l’ombrellino rosso sul letto, abbandonò la faccia contro il collo di Tito, e gli versò tutte le sue lacrime più calde sulla cravatta di maglia verde, a grandi trasversali bleu. Sapeste come si profumano le lacrime, scorrendo su un fresco viso di donna, e come si profumano le cravatte quando le donne ci piangono su!
Tito ne ebbe la cravatta intrisa e l’anima più leggiera. Anche Cocaina aveva l’anima leggiera e luminosa come una mantiglia Andalusa…” L’amata diviene sostanza, la sostanza diventa l’amata in una blasfema e impreziosita transustanziazione, dove l’estetismo si fa frivolezza quasi checchesca: il ricordo in un momento d’esaltazione si fa carne, in un solipsistico e stucchevole onanismo così frou-frou – quell’ombrellino rosso, quella cravatta di maglia verde a trasversali, quell’ Avatar… Ah Piti, piti, da leggere all’imbrunire sul divano del salottino di Nonna Speranza…
Ma ci sarebbe ancora da scrivere e trascrivere… come dimenticare la virago armena Kalantan, che giace con l’amante in una cassa da morto…Talvolta più crepuscolare di un Gozzano ospedalizzato, talvolta più solare di un D’Annunzio anfetaminizzato,
amaro come un rimming sul pineto, penetrante come un fisting all’olio di ricino, il piccolo scoiattolo muove al riso della hyaena ridens; scombussola l’ordine dopaminico sorprendendoci talvolta, nel suo spesso scolastico capovolgimento (o scientifico, come preferite) dei luoghi comuni, con zampata feroce di giovane tigre. La musa ispiratrice di questo maledetto che dopo la coca odorò l’incenso per il resto della sua vita, è un’Ermione spostata, una Frine da bettola in formato sniffo, che grazie alla sua arte mucida e fremebonda supera la barriera ematoencefalica più resistente, titillandoci con i suoi singulti esasperanti, instillandoci viete nostalgie per atmosfere solo immaginate.