FILM: IL DIAVOLO VESTE PRADA
Il diavolo veste Prada (The Devil Wears Prada)
regia: David Frankel
cast: Anne Hathaway, Meryl Streep, Adrian Grenier, Stanley Tucci
Commedia romantica con retrogusto drammatico ambientata soprattutto nella New York contemporanea con uno space-cut a Parigi dove l’irruzione fastosa del rosso valentino durante la sfilata che le yankees devono contemplare per motivi professionali diventa la cifra del vero stile, quello italiano, finalmente contestualizzato (in Europa); stile italiano che insieme al gusto francese nell’architettura e nell’arredamento classico rappresentano bene nel film la contromimesi wasp: palese oggetto del desiderio per questi guerrafondai che con il controllo del petrolio hanno raggiunto l’egemonia mondiale, lo stile europeo è la cosa che non possiederanno mai, non potranno mai comprare e non potranno mai conquistare sia che la democrazia la importino sia che la esportino. A proposito: nello spettatore italiano l’apparizione del divino Valentino a questo punto del film suscita un interrogativo: è Valentino che fa la parte di Ballantini o è Ballantini che fa la parte di Valentino?
La trama è scontata: una provincialotta neolaureata e aspirante giornalista, Andy, riesce a diventare assistente di Miranda Pristley (una Meryl Streep che sola poteva conferire alla strega qualche guizzo di umanità che la rende vera e non una sorta di incarnazione in manager di un’arpia che nemmeno nel giardino delle Esperidi…), capo prestigioso e insopportabile della rivista di moda Runaway, arbiter elegantiae del gusto globale.
Ovviamente secondo il cliché della favoletta urbana la provinciale verrà corrotta dal mondo fatuo della moda, assimilerà i ritmi frenetici e lo style life dei personaggi che popolano l’ambiente, ma non perderà completamente la sua purezza perché in un anno circa, dopo aver perso anche il boyfriend, in un momento di resipiscenza si renderà conto che sono altre le cose che contano nella vita, che l’essere vince sull’apparire e bla bla bla. Scontatissimo quindi il mid happy end [giacché nulla è più come prima e l’esperienza costituirà per Andy (l’aspirante giornalista) un capitolo importante del suo romanzo di formazione] che stempera con un tocco di malinconia il contrasto inconciliabile tra i due mondi, quello del jet set e quello della classe media.
Il plot quindi è consono al contenuto del prodotto: l’effimero (o il nulla, a essere cattivi ma anche ideologizzati). E tuttavia questo nulla in qualche modo influenza direttamente o indirettamente il nostro quotidiano ed esprime anche il mood dell’epoca che viviamo, giacché il sistema moda è anche questo, come Miranda spiega alla neoassunta in una memorabile scena che racchiude l’essenza del film: ad Andy, che è alle prime armi e che oltretutto non sa vestire, scappa una risata assistendo a un momento di crisi determinato dall’incertezza nello scegliere due modelli di cinture da lanciare, che a lei appaiono identici: Miranda, con sprezzo di acida regina, le spiega che persino il colore del maglioncino che la neoassunta indossa in quel momento è una conseguenza delle scelte del sistema moda, e per di più di terza o quarta mano, nel suo caso specifico. Miranda però è una vera megera, la tipica persona che vive nel lusso più lussuoso (ogni mattina allorquando entra in ufficio è una sfilata che si conclude nell’utilizzo della sua assistente come guardaroba umano e anti-stress privilegiato) ma fondamentalmente senza stile. Eppure lo stile è l’uomo ( e in questo caso dovrebbe essere la donna), ma immaginiamo che Miranda non abbia avuto il tempo di leggere Stendhal tutta presa dal rampantismo sociale che l’ha portata ai vertici. Una Jackie Onassis, una lady D, una Susanna Agnelli nostrana, non trattavano la loro servitù dandole costantemente la consapevolezza di essere quello che era. Certamente una signora vera non si comporta come Miranda, persino nella borghesia che non è gentry e magari poco più di classe media. E qui cerchiamo di esercitare uno sguardo obliquo sul film, per scorgerne le mancanze: sicuramente esso fallisce in una rappresentazione a tutto tondo del mondo della moda, perché ce ne mostra solo il coté più nevrotico e appariscente, senza nemmeno un cenno, per esempio, alla delocalizzazzione e alla produzione delle industrie del settore nel demi monde (oggi il terzo mondo è fuori moda persino come concetto politico…) con tutta la sofferenza e il costo umano che essa comporta. Forse è per questo che in buona sostanza Miranda rischia di diventare da personaggio una sterile caricatura: non si capisce infatti, come mai una donna ricca, potente, che riveste un ruolo sociale invidiabile, che la colma di gratificazioni oltre che di stress dalla mattina alla sera, debba svegliarsi tutte le sacrosante mattine con la luna storta…
Anyway,il gioco della dialettica servo-padrone porterà Andy ad assimilare molto da Miranda, ma quando abbandonerà la janara in confezione de luxe alle luci sfavillanti della sua corte dimostrerà in fondo di avere più gusto di lei.
Dobbiamo aspettare un po’ prima di vedere il marito della strega, che è anche madre di due gemelline ben avviate lungo la strada della perfidia e che rischieranno di far licenziare la povera assistente quando questa , allorché entra nella splendida magione della super-direttrice, viene da loro invitata a depositare il book nelle stanze superiori, invadendo suo malgrado la privacy.
E ovviamente il marito di Miranda non poteva non deludere le aspettative: un essere insignificante che compare in mezza scena e che sembra costituire solo l’alter ego della direttrice nei suoi momenti di crisi. In questo mondo fondamentalmente matriarcale, dove tutte le assistenti subiscono il carisma velenoso di Miranda, dove l’umore è determinato dal modo in cui ci si veste, dove la scelta di un paio di scarpe può stabilire se la giornata sarà un inferno o un purgatorio (un paradiso mai), le figure maschili sono pressoché assenti, tranne quella del gay, l’art director Nigel interpretato con stile da Stanley Tucci, che dà i consigli giusti a
Andy permettendole di entrare nelle grazie dell’arcigna capessa.
Una battuta memorabile: quella della precedente assistente di Miranda, Emily (che alla fine riprenderà il suo posto nelle grazie di Miranda) rivolta a Andy a proposito dell’alimentazione: “Tu mangi carboidrati!” (il limite che impedisce ad Andy di assumere la taglia perfetta per indossare i capi fashion). Speriamo non diventi un nuovo comandamento negativo, quello di non mangiare carboidrati…se gli italiani perdessero il gusto persino nel cibo presumiamo che lo perderebbero anche in altri settori molto più importanti …
Al di là delle facili letture in spirito puritano per gli autoctoni (la purezza americana contro la corruzione europea che qui si esprime nella tradizionale contrapposizione: valori (veri) autoctoni/lusso europeo; la moda è importante ma non bisogna diventare fashion victim altrimenti si rischia di vendere l’anima al diavolo e via banalizzando) il film, di fatto, è piacevole alla vista. Per chi abbia un minimo interesse per il mondo della moda (e un gay non può non averlo) il film è un tripudio di colori, di forme, di stili nel vestire. Risulta però così troppo patinato: un film da gustare nelle scenografie e nei dialoghi (che varrebbe la pena di ascoltare in lingua originale), ma in buona sostanza privo di contenuto. Rischiando di cortocircuitare il messaggio stesso che nelle intenzione sembrava si fosse assunto di mandare: ovvero la moda, lungi dall’essere un qualcosa di cui bisogna tener conto anche in una prospettiva culturale in realtà è un mondo vacuo di forme e colori che autoalimenta sé stesso e fondamentalmente autorefenziale.
CREDITS
Il film si ispira al best seller di Lauren Weisberger, di cui copia anche il titolo e che a sua volta è imperniato sulla vicenda autobiografica della scrittrice che fu assistente di Anne Wintour in Vogue America. Il regista David Frankel è noto anche per aver girato alcuni episodi della serie Sex & City. La colonna sonora è gradevole e appropriata, infarcita di numerosi successi di Madonna e di Bono Vox degli U2.