skizomante

Thursday, March 02, 2006

FILM/VISTO: A SANGUE FREDDO

“A sangue freddo” è un film sullo scrittore Truman Capote (Capote lo pronunzierei come si scrive, dato che è un cognome di origine cubana, mentre gli anglo-americani e gli snob lo pronunziano leggendo “i” la “e” finale) e la vicenda che gli sconvolse l’esistenza: l’incontro con due assassini che per pochi dollari avevano sterminato una famiglia e che erano stati condannati a morte, nell’America della metà del secolo scorso. Il film mi interessava molto, perché di Truman avevo letto quasi tutto, a cominciare da “A colazione da Tiffany” fino a “Preghiere esaudite”; tra l’altro in esso si rivela completamente il senso della sentenza scritta nella intro di quest’ultima opera (qualcosa tipo “costano più lacrime le preghiere esaudite che quelle non esaudite”). La pellicola, molto realistica e biografica, ce lo illustra molto bene: Truman legge quest’articolo di cronaca nera sui due giovani assassini e decide di conoscerli per scrivere una specie di romanzo-verità con il quale inaugurare un nuovo genere letterario (che definisce no fiction novel). Senonché nasce un sentimento molto complesso nei confronti di uno degli assassini, l’affascinante mezzo-indiano Perry Smith. Truman si identifica con lui, perché è un outsider come lo è stato lui per la sua omosessualità prima di diventare uno scrittore famoso. Questa identificazione è alla base anche del suo innamoramento, che però deve essere sublimato perché possa portare a compimento l’opera letteraria della sua vita. Del resto sarebbero impossibili sviluppi di altro genere perché si tratta di un carcerato morituro. Grazie alla sua fama di scrittore e alle sue interviste in carcere, in preparazione del libro che deve scrivere, Capote riesce a rimandare per anni la condanna a morte dei due killer. Ma quando si rende conto che sta sfruttando una triste vicenda esistenziale che coinvolge più persone (le vittime e i condannati a morte che lui usa spietatamente per la stesura del suo romanzo), non riesce più a sopportare la piega che sta prendendo la vicenda; tuttavia cinicamente si rende conto che per terminare il suo libro deve pregare ormai che la sentenza venga eseguita. Fin quando il rapporto con Perry non si concluderà con l’impiccagione di costui, egli non potrà mai scrivere il finale del suo romanzo. Quindi non fa più niente per evitare la loro condanna, cade in uno stato di profonda depressione in cui l’unico conforto sono i superalcolici e alla fine assiste all’impiccagione struggente del povero Perry che fino all’ultimo aveva contato sul suo aiuto per salvarsi. Ma Truman non si riprenderà mai più da questa vicenda, perché la morte di Perry è come se paradossalmente avesse ucciso la sua metà più vitale, quella non mondana, quella più autentica. E anche quella più genuinamente marcia: l’outsider boy della provincia americana che per emergere non si tira indietro di fronte a nulla e morirà per le conseguenze dei suoi abusi alcolici. Stupenda l’interpretazione di Philip Seymour Hoffman, sempre in bilico tra il birignao più affettato e il mimetismo stravinskijano d’alta scuola. La ricostruzione della società letteraria newyorkese e del rapporto di Capote con Harper Leigh, autrice de “Il buio oltre la siepe” è efficace e convincente. Le critiche che sono state rivolte al film dai professionisti e che ho letto si dividono in due tipologie fondamentali: quelle secondo le quali il complesso mondo psicologico di Capote non è stato reso in modo soddisfacente (e quindi sarebbero stati necessari, presumo, dialoghi più narrativi o una regia più esplicativa) e quelle secondo le quali invece il regista con la telecamera ha fatto uno splendido lavoro di sottrazione, sfocando nei momenti cruciali e lasciando immaginare allo spettatore quello che si agitava nel cuore dello scrittore. A me preme mettere in evidenza un’altra caratteristica di questo film: la decostruzione dello stereotipo del gay carino e disponibile, fondamentalmente buonista (in realtà icona a uso e consumo del buonismo) anche se vittima del pregiudizio degli altri. Qui Truman appare realisticamente simile a quanto doveva essere nella realtà, da quanto mi sembra si possa arguire dai suoi stessi romanzi e da varie sue dichiarazioni: un gay col pelo sullo stomaco, uno che non si fa scrupolo di illudere un condannato a morte estorcendogli la sua amicizia solo per scrivere un libro che gli darà il più grande successo, e che spera che muoia quando ormai è d’intralcio al suo progetto (le famigerate preghiere esaudite) con le sue speranze di salvezza. Tuttavia a una lettura più profonda, e del film e della vita di Capote, le cose dovettero svolgersi in maniera più complessa. Il rapporto con Perry doveva essere di odio e amore, ed è difficile accettare un’immagine di Capote tutta forgiata sul cinismo efferato, dato che lo scrittore morì, si può dire precocemente, per le conseguenze di suoi eccessi alcolici. Inoltre le preghiere esaudite sono proprio quelle che fanno piangere di più, secondo quanto affermava Truman, e la degradazione dello scrittore dopo la pubblicazione del suo romanzo forse si spiega proprio col fatto che non riusciva più a convivere con la propria immagine, che lo disgustava, e che era ridotta ormai a un infimo livello la stima che pur doveva aver avuto di sé quando era riuscito a riscattare la propria omosessualità dai pregiudizi della sua epoca.

FILM/VISTO: NOTTE PRIMA DEGLI ESAMI

Tanto rumore per nulla. Pubblicizzato nelle migliori vetrine televisive, persino a Sanremo, il film con Faletti protagonista appare come una melensa commedia italiota, che pur di lasciare un gusto amaro rinnega sé stessa, come nella pretensione di rendere meno banale la panna con ingredienti che non le si confanno, tipo il rabarbaro o il peperoncino. Patetica la figura della nonna, che muore d’infarto (credo) perché ama ancora ballare alla sua età nonostante il medico glielo proibisca (difficile in quell’epoca trovare una nonna così, la si ritrova più oggi, magari). Poco credibile soprattutto questo professore ex-sessantottino che si fuma lo spino davanti all’allievo, che invece, pulito e puro assiste divertito alla rievocazione dei suoi trascorsi freak e che poi viene tradito dal “carogna” (epiteto con cui viene gratificato dagli alunni il prof) al momento fatidico dell’esame di maturità. Il messaggio che passa, persino esplicitato, è che non bisogna mai fidarsi dei professori. Specialmente ex-sessantottini, che in fondo sono dei poveri sfigati. In realtà molti ex-sessantottini sono persone che hanno ruoli di privilegio oggi in Italia, fanno parte della classe dirigente distribuiti un po’ in tutti gli schieramenti, e periodicamente continuano a propinarci la mitologia dei favolosi sessanta, in cui in realtà non cambiò un emerito cazzo mentre si raffinò piuttosto la meccanica desiderante che ancora informa il nostro metacodice. E costoro poi, puntualmente, confrontano la grandezza dei loro ideali di allora (diciamo della stupidità facilmente strumentalizzabile della loro esuberanza giovanile scambiata per grande politica), che oggi giustamente rinnegano, con il disinteresse delle generazioni attuali. Che saranno anche più idiote ma emotivamente sono più intelligenti e non si lasciano manipolare facilmente dal mito di Che Guevara, che per loro equivale a quello di Scarface: va bene per un poster o per rendere una maglietta più trendy, ma certo non lo si prende sul serio dal punto di vista ideologico. La sua vita la si gusta come un romanzo, non come il paradigma valoroso del giovane rivoluzionario assassinato dal Potere.
Negli ‘80 tra l’altro c’era poi la categoria delle professoresse ex-sessantottine, presumo più numerosa di quella dei professori ex-sessantottini, che forti del cospicuo stipendio del marito, oltre che di quello statale, hanno giocato a fare le signore predicando la rivoluzione proletaria.
Questa categoria, come l’altra, esercita ancora oggi le sue funzioni pedagogiche. Ma con molto meno carisma che negli anni ‘80, quando erano più rispettabili e non avevano perso ancora l’aura che derivava loro dall’aver combattuto contro il sistema capitalistico etc.
Ma il film non si preoccupa di restituire un’immagine più complessa di quelli che furono gli anni ‘80: in quel periodo non ci furono solo le canzoni dei Duran Duran, di Cecchetto o degli Europe; non ci furono solo i giovani fighetti (i paninari sui quali i sodali di Faletti hanno costruito le loro fortune di comici), ma ci furono anche i dark, i metallari, i rockettari. Ci fu Chernobyl e l’aids. Ci fu il trionfo del socialismo craxiano. Ci fu l’affermazione della società dello spettacolo. In quegli anni maturò l’ultima generazione che mise in discussione il Potere (con risultati ovviamente ancora più patetici e ridicoli di quella precedente) e che diede inizio nei ‘90 al movimento della Pantera e dei centri autogestiti, quando il ‘68 e le sue tensioni divennero definitivamente prodotto di consumo. Di tutto questo il film non parla, solo un vago riferimento al crollo del muro di Berlino, se ben ricordo. Insomma, quelli saranno stati anche anni di merda e di edonismo reaganiano, ma non furono solo quello. E un film che aspiri a essere qualcosa di più che uno scadente prodotto di consumo non può appiattirsi su pochi luoghi comuni, deve sforzarsi di riprodurre un minimo di complessità. Inveceche tristezza: ne esce un subdolo italiota graffiti che può toccare le corde della generazione che ha vissuto quegli anni come può la più stupida delle musiche legate alla propria giovinezza (e questo ne spiegherebbe il proclamato successo). Ma è un film mediocre, superficiale, insulso e in fondo diseducativo perché descrive la scuola di quegli anni come un macello inutile (e quella di questi anni allora?) gestito da frustrati vendicativi, il che è vero solo parzialmente, e gli studenti come miserrimi cazzari con la rara eccezione della solita mosca bianca, stereotipizzata nell’occhialuto secchione che verrà cacato dai compagni solo per essere sfruttato in vista della preparazione all’esame, e al quale sarà destinata la carriera del serial killer.