skizomante

Thursday, February 02, 2006

WANNA MARCHI CAPRA ESPIATORIA, FRATE BISCEGLIA SI ACCONTENTA DI QUELLO CHE PASSA IL CONVENTO, FINI FUMÒ LO SPINELLO IN GIAMAICA MA PROPONE DI ARRESTAR

Martedì scorso little surfing televisivo tra mamma rai, matrigna mediaset e zia lasette: a striscia i personaggi degli ultimi giorni sono Wanna Marchi, autentica strega da sabba con quei capelli rosso-witch, le lacrime da coccodrillo, la proclamata innocenza, le testimonianze di chi l’ha accusata di fare amuleti raccogliendo sassolini sul greto di un fiume dato che non trovava fabbriche che gliene producessero a sufficienza. Eppure questo accanimento contro l’antipatica megera urlatrice e bucaschermo non mi convince, vorrei che si parlasse di magie ben più sconcertanti, quelle che fanno sparire i miliardi degli investitori e creano le fortune dei finanzieri creativi… del resto Wanna e le altre (e gli altri) sopperiscono a un bisogno psicologico comune: un counselling astro-truffaldino (secondo le accuse) che deve avere la sua efficacia per chi ci crede, visto che nel XXI secolo è ancora in auge e viene preferito a quello del prete e a quello dello strizzacervelli; e che rivela una piaga fondamentale della nostra sanità a svantaggio di quelli che lo richiedono per motivi di salute: la necessità di un medico e di una medicina più umane, dove non vi siano solo macchine, pillole, cure in stanze asettiche, diagnosi come sentenze inappellabili che trincerano la loro malignità dietro l’obiettività scientifica, ma anche parole, calore, affetto, comprensione. Il medico dovrebbe guardare il suo paziente come un essere umano, dovrebbe osservare prima attentamente il suo corpo e la sua mente, e poi consultare radiografie, tac, analisi…
I disperati che si rivolgono al cartomante per motivi di salute spesso cercano nella magia quel conforto e quell’umanità che il medico tradizionale non è in grado di dargli…
Ma l’algofila Wanna è ormai entrata nella storia del piccolo schermo, e delle sue vicende giudiziarie e degli strascichi di queste poco ci interessa: ella con le sue urla, le sue grida per gli acquisti (altro che consigli) è stata una erinni capace di suscitare sensi di colpa nel telespettatore che non provasse ribrezzo per il grasso del proprio corpo. Ha servito la Chiesa più che le potenze del male, suscitando un disprezzo per la carne (in eccesso), pari alla cupidigia con cui, servendosi della sua corte di maghi e aspiranti fattucchiere, spillava denaro a chi le chiedesse aiuto (secondo le accuse), vera metafora della denigrazione del consumismo occidentale nella sua versione italiota, in cui l’era dell’abbondanza troppo è stata identificata con l’era della grande abbuffata alimentare. Ha dato il suo contributo culturale alla definizione del nuovo schema del corpo contemporaneo e se si è arricchita con minacce, amuleti e maledizioni (come sostengono) lo ha fatto con i mezzi che aveva a sua disposizione e secondo i suoi talenti in un capitalismo globale dove si odora solo il denaro dei parvenu, che magari puzzerà di merda ma non di sangue come quello di chi, secondo Balzac, ha costruito un patrimonio veramente grande (all’origine di una grande ricchezza c’è sempre un delitto, scriveva il francese ormai due secoli fa). Magari si potessero vedere le lacrime (di coccodrillo o di altro animale) di chi viene processato per reati ben più gravi. Ma manca la conditio sine qua non: il processo vero, appunto. Vorrei vedere quelli di striscia mostrare lo stesso zelo adoperato per Wanna nei confronti di figuri come quel Casillo, accusato di aver acquistato partite di grano contaminato dal Canada, partite che sono finite nella pasta dei migliori produttori nostrani: quantità esigue, sembra, prive di rischio per il consumatore, ma ormai pure sulla pasta, la base della nostra dieta, cala un’ombra inquietante… ma basta, è tutto contaminato, mangiamo e beviamo solo merda, respiriamo merda, e per non affogare in pensieri di merda è opportuno cambiare argomento e distrarsi un po’. Fra Bisceglia è la new entry dello stall (non star, avete letto bene, stall – come stalla) system televisivo italiano.
Innanzitutto qui lo si giudica per par condicio come personaggio televisivo, e non come frate, così come abbiamo giudicato Wanna come icona televisiva e non come strega. Leggendo le accuse che gli si muovono lo si potrebbe credere una versione riveduta e ancor più scorretta del cinematografico e indimenticabile Babbo Bastardo, il Babbo Natale alcolizzato che si pisciava sotto davanti agli ingenui bambini che esprimevano i loro desideri e sodomizzava perverse femmine da monta; con la sua capigliatura e la sua barba very christmas night il frate ha avuto il torto, secondo l’accusa, di contentarsi di ciò che gli passava il convento. Ovvero le suore che avrebbe stuprato, in vicende boccaccesche in cui l’estetica del pecoreccio più genuino si sposa con interni ben poco monastici di pornografica memoria. Personaggio esuberante, aggressivo, plurilaureato, prostatico e incontinente, tifoso sfegatato, legato al Cosenza, ospite televisivo di reti locali e nazionali, molto politicamente scorretto, non lo si riesce a odiare: gli hanno dato i domiciliari e speriamo pure qualche bella puledra che possibilmente non sia una monaca di clausura, per sfogare la sua esuberanza (ma pare che sia impotente).
E passiamo alla politica, non per cambiare argomento rispetto alla società dello spettacolo, ma per trovarne l’essenza autentica: meraviglioso il fotomontaggio dinamico di striscia di mercoledì in cui si vedeva un Fini versione freak, abbigliato da rasta, fumante lo spinellone come durante la sua sconcertante vacanza in Giamaica con gli amici. È stato lo stesso politico ad ammettere la sua esperienza psichedelica in quel dei Carabi: già il solo pensiero fa scompisciare… ma ve lo vedete il post-fascista che si è prostrato di fronte alla potenza di Sion rinnegando il fascismo da cui proviene come male assoluto, con la zucchetta o senza, che fuma un derivato della cannabis? Forse preparava la sua futura strategia perdonistica, e confondeva la Zion di Bob Marley con la Sion degli Ebrei con i quali è dovuto giungere a pesantissimi compromessi pur di consolidare le sue posizioni di potere. Perché le sue ultime posizioni molto progressiste (i suoi sì all’ultimo referendum, per esempio) non si sposano con la sua ennesima criminalizzazione della tossicodipendenza, che ripesca i vizi retrogradi e la paranoia di controllo della destra tradizionale. Dunque non c’è reale evoluzione di pensiero, ma solo calcolo politico, mi sembra di poter dedurre. E poi, caro Gianfranco, tu te lo sei fumato lo spinello in Giamaica, vuoi che tutti gli italiani attraversino l’Oceano Atlantico per farsi una canna e non essere arrestati? Gianfranco infatti vorrebbe inserire nel decreto per le Olimpiadi di Torino, secondo una prassi politica raccapricciante, la nuova legge sulle droghe, che equipara, di fatto, la cannabis all’eroina. Sarà considerato come spacciatore chi sia trovato in possesso di quantità superiori a quella famigerata modica quantità, il cui spettro ritorna ancora una volta. E il consumatore comunque sarà sottoposto a una serie di misure amministrative che lo priveranno, di fatto, di alcune libertà (ritiro del passaporto e della patente, obbligo di firma in caserma) oltre che a costringerlo a pagare cospicue multe. Ricordate all’inizio degli anni ’90 le ondate di arresti in cui le patrie galere accolsero numerosi giovani colpevoli solo di farsi le canne, a causa della famigerata Craxi-Jervolino? Ci fu poi un sussulto di coscienza e una considerazione pratica: non si potevano impegnare forze dell’ordine e istituti di pena per una stronzata del genere, che non risolveva certo il problema della tossicodipendenza, anzi forse lo aggravava, perché tanto valeva allora farsi di eroina e cocaina, visto che non c’era differenza, dal punto di vista legale, con la cannabis! Ricordo a Gianfranco che la legge non ha portato molta fortuna a Craxi… qualche hanno dopo Bettino era il cinghialone bersaglio di insulti e monetine: criminalizzare la droga porta sfiga! Ma non credo che l’argomento “malocchiesco” abbia presa su una persona che ha dimostrato di essere così “razionale”. Ciò che gli farà cambiare idea saranno probabilmente le considerazioni dei suoi collaboratori più intelligenti, quando gli faranno notare che la massa dei giovani che fino ad ora se ne erano strasbattuti di questa farsa delle prossime elezioni di aprile, si recheranno in massa alle urne per votare la sinistra, che storicamente è stata sempre tollerante sull’argomento droghe. Più spinelli per tutti dovrebbe essere lo slogan di centro-destra che voglia far presa sulle coscienze giovanili, altro che tolleranza zero! Oltretutto i giovani sono ben più numerosi di quei “benpensanti” incartapecoriti il cui bolso moralismo questa nuova (in realtà vecchia) legge cerca di titillare. Ma mi costringete anche a machiavelliche lezioni di realismo politico? Si vede che questa classe dirigente è composta di dilettanti allo sbaraglio: non si tratta nemmeno di un teatrino, ma di una corrida!
Mi avvertite quando oscurerete il mio sito o vorrete crearmi dei problemi, in modo da non farmi scrivere articoli inutili che non potrò postare? Alle censure ormai sono abituato, ma vorrei che foste leali risparmiandomi la fatica di redigere articoli che non saranno pubblicati. In fondo vi amo tutti, perché tutto è spettacolo e niente è reale, e un personaggio televisivo è un simulacro, e lo giudico sempre per come appare. Come è realmente non mi interessa nemmeno: dal punto di vista metafisico si tratterrebbe di una grave contraddizione ontologica: non si può attribuire l’esistenza al superfluo, ma ci si può divertire. Un politico, una strega, un frate che passano in televisione, non sono più un politico, una strega, un frate bensì un personaggio di politico, di strega, di frate. Sicché anche se detto personaggio ideologicamente è agli antipodi della mia Weltanschauung, non mi riuscirebbe mai di odiarlo o di prenderlo sul serio; il mio umile compito di giornalista (non iscritto all’albo, per carità, e non pagato da nessuno e nemmeno ripagato dall’affetto dei lettori virtuali che difficilmente si scomodano esprimendo anche il surrogato di un commento, auto free lance o free free lance oserei definirmi) consiste nell’esprimere considerazioni scientifiche adottando un criterio fenomenologico: di quello che vomita il tubo catodico faccio l’oggetto della mia scrittura, senza rancore e con il sorriso sulle labbra. Pertanto come posso non apprezzare la presenza del nostro presidente del consiglio, il Berlusconi, che ultimamente dilaga su parecchie reti, propinandoci ottimismo venato di sentimento persecutorio, vittimismo condito di ironia, sketch e barzellette in cui è maestro (non le barzellette sullo stato reale dell’Italia, malevoli lettori, che forse non è conosciuto nemmeno dal centro-sinistra, bensì quelle sul presunto voto di castità, poi rinnegato, in cui un politico si dimostra più morale di un frate! Silvio batte il teologo Bisceglia sul suo stesso terreno! L’uomo di potere che si dimostra più morale del conventuale… fortunatamente l’immaginifico ha poi smentito a casa di Vespa l’altra sera, altrimenti avrei pensato che stesse studiando da papa, invece che da presidente della repubblica…) A proposito di porta a porta di martedì, una vera chicca è stato il ripescaggio del confronto D’Alema-Berlusconi di qualche anno fa: Silvio mostrava venti anni di più di quanto ne mostri adesso e Massimo sembrava davvero un ragazzino pronto a essere divorato, come di fatto accadde, dal lupo cattivo, dove la parte della nonna veniva recitata dalla Bicamerale… Oggi invece, D’Alema si cruccia (spero) per il disvalore morale aggiunto della (in parte anche) sua barca rispetto alla sua figura pubblica, mentre Berlusconi si gode il valore estetico aggiunto del trapianto tricologico, e anche di qualche altra cosa, forse, dato che il suo viso appariva ancora più liscio e fotogenico di quello di Monica Bellucci ospite di Bonolis in contemporanea al senso della vita! A questo punto non posso fare a meno di esprimere una risentita recriminazione nei confronti del conduttore che nella sua intervista stimolava l’attrice ad approfondire alcuni temi d’attualità: dal banalissimo chiacchiericcio che ne scaturiva, infarcito di luoghi comuni e di “si dice” spacciati come acquisizioni delle intelligenze più aggiornate (per entrare nel novero di questi moderni pensatori basta essere politically correct, cioè mostrare di tollerare anche l’idiota più stomachevole, solo perché è una donna o è di colore o è gay o è un caso umano etc., secondo la ricca casistica in cui oltreoceano sono maestri, allo scopo di ghettizzarlo con raffinatissima astuzia), si attendeva probabilmente l’impossibile epifania di un po’ di materia cerebrale dietro una bellezza di spessore mondiale. Ora, è chiaro che dalla communis opinio niente può emergere che non sia scontato, che non sia aria fritta, che non sia fuffa, che non sia cerebromuffa. Specialmente in un mezzo come la televisione, che a registro di pretese intellettuali può soddisfare al massimo quelle della leggendaria casalinga di Voghera (sia detto non a discredito del mezzo, che nel suo specifico ha solo quella che definisco “spettacolaribilità”, cioè la sublime capacità di rendere il niente degno dello sguardo, cioè dello spectare). E poi: perché una donna bella o bellissima dovrebbe dimostrare di essere anche intelligente? In genere c’è un rapporto di proporzionalità inversa tra le due qualità, secondo il quale quanto più c’è bellezza tanto meno c’è intelligenza. Mi sembra un contrappasso naturale: troppe qualità in uno stesso individuo hanno un che di anormale, finanche di mostruoso: un genio al massimo può essere carino. Si può essere belli e non stupidi: ma allora non occorre dimostrarlo dandosi pretese intellettuali, altrimenti si appare l’opposto di quel che si vuol far credere. Alle bellezze stellari consiglio caldamente il silenzio: non si rischia così di apparire sterili ripetitori di insulsaggini altrui e ci si circonfonde di quell’aura misteriosa che rende la bellezza ancora più splendente; inoltre si dà l’opportunità di lasciar inferire a chi contempla capacità intellettuali maggiori di quelle che si possiedano, perché restando silenti non possono essere valutate come nel caso che le si voglia rendere palesi nel tentativo di esprimere un’opinione, tentativo che si ritorce contro la bellissima o il bellissimo sprovveduto di turno.
Ma basta con questo cipiglio moralistico e questa gravità di austero osservatore di costume: parliamo di argomenti leggeri, ritorniamo alla politica. Scrivevo poco sopra del valore aggiunto del Berlusca – preferisco liberargli il cognome dall’accrescitivo secondo me fuori luogo, per alleggerirlo un po’ del pesante fardello che deve essere per lui (come per chiunque) governare gli italiani. Inoltre questo taglio lo preserva anche dall’accostamento parodico con un qualsiasi Merolone o altri colleghi della televisione. Il personaggio è simpatico, bisogna convenire; ci vuole una certa maestria nel far dimenticare al pubblico di essere il presidente del consiglio aspirante presidente della repubblica, invece che uno straordinario one man show. Difficilmente un Prodi potrebbe spuntarla in un faccia a faccia con lui, anche nella parrocchia più bigotta del paesino più sperduto d’Italia. D’Alema dovrebbe andare a lezione dalla buonanima di Guareschi, e trasformarsi in un Peppone postmoderno; ma temo che come interlocutore si troverebbe solo uno stagionato Don Camillo alla mortadella, ultimo stadio dell’evoluzione di un Prodi disposto a tutto pur di conquistare la ribalta. Fassino è una persona seria, e non potrebbe mai competere col Berlusca sul piano del varietà: sarebbe come un dilettante del pubblico che vuole avere la meglio sul capocomico (a proposito del Piero, gli hanno giocato questo tiro mancino della Unipol e delle coop: ma come, mi viene da dire, avete martoriato l’anima dei comunisti perché si evolvessero secondo un mondo regolato dalle leggi di mercato, e ora che vogliono farsi la loro banchetta ve ne venite su con la questione morale? Che ipocrisia, ed è un gioco facile con gli ex-comunisti, che vogliono ancora ritenersi detentori di una specificità morale che però non può essere più la carta sulla quale giocare la loro credibilità, se non si trovano una nuova identità e non portano nel palazzo un diversità autentica… Comunque I love Piero, non toccatemi Fassino, non mi distruggete l’ultimo erede del vecchio Berlinguer. Non si può sparare sulla croce rossa, così si è espresso più o meno recentemente a Markette persino quell’antipatico destrorso di Feltri! E lui è veramente la croce rossa del comunismo italiano, per il suo cattolicesimo, i suoi sensi di colpa pei trascorsi frattocchiari, la sua aria ascetica, il suo sembrar prendere sul serio persino la politica). No, credetemi, fratelli e sorelle, contro il Berlusca l’unico antagonista possibile è Fiorello. Oppure Adriano Cementano. O potrebbe esserlo l’ottimo Totò, se fosse ancora vivo: con un suo “Ma mi faccia il piacere” direbbe in cinque parole tutto quello che c’è da dire.

I SEGRETI DI BROKEBACK MOUNTAINS

I SEGRETI DI BROKEBACK MOUNTAIN
Titolo originale:
Brokeback mountain
Nazione:
U.S.A.
Anno:
2005
Genere:
Drammatico
Durata:
134'
Regia:
Ang Lee
Sito ufficiale:

Sito italiano:
http://www.bimfilm.com/isegretidibrokebackmountain/

Cast:
Jake Gyllenhaal, Heath Ledger, Michelle Williams, Anne Hathaway, Randy Quaid, Linda Cardellini, Anna Faris
Produzione:
Diana Ossana, James Schamus
Distribuzione:
BIM
Data di uscita:
Venezia 200520 Gennaio 2006 (cinema)
(La scheda con i dati essenziali del film è stata copiata dal sito http://filmup.leonardo.it/sc_brokebackmountain.htm).
Due giovani si incontrano nel Wyoming, nel 1961. Jack è un fattore, Ennis è un cowboy da rodeo. Con grande sorpresa vedono il loro rapporto crescere, consolidarsi...... fino a innamorarsi. Ma alla fine dell'estate alla Brokeback Mountain le loro strade si dividono. Entrambi si sposano e cercano una normalità nella famiglia tradizionale. A quattro anni dal saluto, però, Jack passa a trovare Ennis, e la passione riesplode...

(La trama è stata copiata dal sito http://www.35mm.it/film/scheda.jsp?idFilm=24317)


Innanzitutto una precisazione fonetica, visto che molti spettatori del film erano incerti sulla corretta pronunzia del cognome di uno dei due protagonisti: "Gyllenhaal" si pronunzia "Jill-en-hall", come si apprende dal suo sito http://www.jakegyllenhaal.com/index2.html, e quindi in italiano dovrebbe leggersi più o meno Gillenol, considerando che si tratta di un sito anglofono, anche se il nome è probabilmente di origine europea e la sua pronunzia originaria non la conosce nemmeno l’attore. Ai pedanti cultori della lingua lascio le precisazioni sull’apertura e il timbro preciso delle due vocali; detto questo, Jake/Jack Twist, che si è già candidato come possessore di uno dei nasi maschili più belli della storia del cinema (statuario, anche se non classico), ora si candida anche a icona gay, insieme a Heath Ledger, peraltro protagonista anche nel contemporaneo film su Casanova. I due però sono entrambi sposati e in attesa di pargoletti, quindi gli interessati non si facciano illusioni, anche se questo film li autorizzerebbe, perché anche nella pellicola si sposano, pur restando amanti. Ma non si dimentichi che il pubblico gay è ormai un target classico e che l’omosessualità, che sia presunta o reale, è ormai una voce di marketing… Ora entriamo nel merito e sfatiamo innanzitutto alcuni fraintendimenti molto comuni: non si tratta di un film western, dato che la vicenda si svolge negli anni ’60 del secolo scorso, anche se i protagonisti sono due cow-boys, e non due “pecorai”, come qualche malevolo critico ha scritto: certo, si occupano di pecore, ma non come se ne occuperebbe un pastore nostrano. La vicenda si svolge sulle montagne del continente americano, dove in pieno agosto ci sono bufere e si incontrano anche orsi. Inoltre il loro lavoro si svolge per lo più a cavallo, con tanto di fucile. Uno dei due, Jack, è pure appassionato di rodeo. Quindi parlerei di un film country, più che di un western, anche perché i riferimenti visivi, musicali e ideologici sono intrisi di questa cultura “campagnola”, che ha un suo stile inconfondibile anche nell’abbigliamento e che si contrappone alla cultura urbana degli States, dove rappresenta l’aspetto folklorico, con tutta l’ambivalenza del caso dato che il mito della frontiera, dal quale derivano il mito del west e in subordine la cultura country, si è fondato sul massacro dei nativi. Si tratta di una cultura machista, costruita intorno a un economia dell’allevamento, dove il valore di un uomo si misura in base alla capacità di trarre profitto da esso e all’abilità di cavalcare un toro in un rodeo, per esempio. Ovviamente è esclusa ogni tipo di debolezza nel maschio e la virilità è direttamente proporzionale alla rudezza e alla capacità di sostenere questo tipo di vita. Ma non mi starebbe bene nemmeno definire l’opera di Ang Lee un film “gay country”, perché essa si pone agli antipodi della cultura gay, come del resto ci si pone la cultura country, e perché i protagonisti non sono due gay, ma due bisessuali con una più o meno spiccata, più o meno repressa tendenza omosessuale. Anche se hanno rapporti tra di loro, e Jack oltre che col suo amante Ennis, anche con altri (in Messico), tuttavia si sposano entrambi e hanno anche dei figli.
Ovviamente il loro amore è impossibile in quel contesto sociale. Ma forse, al di fuori di quel contesto, non sarebbe nemmeno nato: spesso le grandi trasgressioni sono alle origini dei sentimenti più grandi. Dunque sono fuori luogo tutti i riferimenti ai film di John Wayne, al western classico e alla sua cripto-omofilia, e alla dissacrazione o rinnovamento di un genere, dato che il film, appunto, non rientra né nel genere western né in quello gay, e per questo probabilmente è un piccolo capolavoro. Gli apprezzamenti per il film, letti in vari siti e forum sono per lo più positivi. Ma vi sono state anche reazioni negative, sia da parte della critica, che da parte degli spettatori. Ai gay è piaciuto perché rappresenta l’amore di due maschi veri, al di là dei tradizionali birignao da “Vizietto”, ma anche della tradizionale sensibilità che spesso a torto si attribuisce a questo gender, e che fa cadere a sua volta in nuovi stereotipi per i quali due uomini che si amano hanno un’elevata cultura, una raffinatezza spiccata di modi o una predisposizione particolare per l’arte (ad esempio in film come “Maurice”, tratto dal romanzo di Forster, o “Anouther country”). Non c’è cultura e non c’è effeminatezza, nemmeno mentale, in questi due boys, anzi fin troppa virilità, e quindi per l’immaginario gay rappresentano i maschi ideali, i fantasmi del loro desiderio inesaudibile perché un vero uomo non potrà mai amare uno di loro, e lo sanno: l’unica possibilità per amare una persona del proprio sesso è quella di amare uno che vi ha abdicato. Il paradosso dell’omofilia: lo specchio rimanderà sempre la propria immagine, l’immagine di quello che si è e non di quello che si vorrebbe essere; due gay che si amano in realtà sono due lesbiche. Vi sono state a questo proposito ridicole lamentele perché i due vivono in clandestinità il loro amore, con il rimprovero più o meno sottaciuto per il fatto che non si cimentino in “outing” improbabili o non si diano “visibilità”. Ma stiamo scherzando? Siamo nell’America dei primi ’60, prima della nascita dei gay pride, in una società maschilista e omofoba. E poi il loro amore non avrebbe senso in una convivenza da “marito e moglie” con la speranza in un futuro regolato da pacs… L’equivoco nasce appunto dal fatto che si tratta di due uomini normali (normali perché pur amandosi non rinnegano la propria identità), e non di due gay.
Il loro sentimento è panico, nel senso che è tutt’uno con la natura che li circonda (mi riferisco al dio Pan e non al sentimento provato dai maschietti di fronte ad alcune scene un po’ crude – quasi che fossero loro a essere penetrati da Ennis in una tenda alzata su una montagna sperduta…). I loro accoppiamenti bestiali sono quelli di due animali selvatici – e forse una delle pecche del peraltro ottimo Ang Lee è proprio quello di non aver calcato molto questo aspetto, giocando solo di mero contrappunto tra Natura e Società, e non scrivendo uno spartito innovativo in cui il ritmo selvatico avesse la meglio sull’armonia e la melodia, in una versione estiva della “Sacre du printemps” di stravinskijana fattura. Inoltre avrebbe potuto evitare la scena del rapporto “cittadino” nel motel dove i due, fumando una sigaretta dopo l’amplesso, giunto finalmente dopo anni di astinenza, discutono del loro futuro come una banalissima coppia etero. Non sono d’accordo invece con chi taccia di scarsa credibilità la scena dell’incontro che precede l’amplesso: i due non si vedono da parecchi anni e si baciano sulla bocca con furore sotto gli occhi attoniti della moglie di Ennis, che non vista assiste esterrefatta alla scena che determinerà la fine del suo amore per il marito: si sostiene che è poco credibile. Invece secondo me è credibilissima: è l’esplosione dell’amore rimosso, quello più romantico e passionale, un attimo di follia che travolge il pur accortissimo Ennis, sempre cauto e misurato, ma anche il più passionale, forse. In quel momento egli dimentica di essere sotto casa sua, di avere una moglie e due figlie, di vivere in una città omofobica, per accogliere con tutto sé stesso l’uomo che ama, l’amico finalmente ritrovato.
Una scena da ricordare, e che secondo alcuni si inscrive nel registro della storia del cinema, è quella del primo rapporto nella tenda sulle Brokeback Mountains: una penetrazione anale rude, prima della quale Ennis si sputa sul palmo della mano, dove l’amore sodomitico autentico si manifesta in tutta la sua violenza perturbante. È in genere a questa altezza della narrazione che le risatine del pubblico tradiscono l’imbarazzo che suscita il desiderio quando si esprime nella sua purezza. Ai maschietti puri il film ha provocato disgusto, in quelli alla ricerca della loro identità ha lasciato un segno forse indelebile, alle virago è dispiaciuto perché i personaggi femminili subivano le scelte dei due protagonisti che le tradivano. Non mi sembra: la moglie di Ennis si sposa con il gestore del supermercato in cui lavora, cercando un chiarimento impossibile col marito solo dopo il divorzio, quando la rivelazione dei sotterfugi con i quali ha avuto la conferma del suo tradimento è ormai patetica e inutile, dimostrando la meschinità tipica delle donne abbandonate, che non perdonano nemmeno quando si sono rifatte una vita. La moglie di Jake sopravvive al marito, che rappresenta poco più che una figura di scarso rilievo nella sua vita tutta dedicata alla gestione dell’azienda di famiglia: egli è stato solo quello che l’ha inseminata e resa gravida del figlio necessario a soddisfare il narcisismo del padre-padrone. Le anime belle femminili invece si sono commosse fino alle lacrime per il sapore romantico della storia: peccato che si trattasse di due uomini! Temo che le numerose donne che abbiano guardato questo film, come altri a tematica omofila, nel tentativo di capire di più della psicologia maschile (tentativo inutile perché del maschio medio in genere sanno più di quanto lui stesso sappia), siano rimaste un po’ spiazzate: non viene rappresentato il gay che loro tanto amano (ma che in realtà compatiscono), l’eunuco ipersensibile e raffinato, arbiter elegantiae et amoris con il quale confidarsi e fare comunella contro il macho detestato per la sua rozzezza e la sua insensibilità ma incarnazione del desiderio di entrambi i generi; viene bensì rappresentato il macho che desidera un altro macho, rompendo il triangolo classico della meccanica emozionale di genere. Questa è la grande innovazione del film. Infine un’annotazione, su quella frase finale pronunciata da Ennis, su quel “lo giuro” per il quale si sono rintracciate le parole originali nella versione anglofoba e si è recriminato sul doppiaggio in una polemica pretestuosa: quel “lo giuro” riprende il giuramento che Ennis fa all’amante in una delle ultime scene, minacciandolo per le voci che gli sono giunte all’orecchio dei suoi “tradimenti messicani”, che egli non può assolutamente tollerare. Poco dopo riceve la cartolina che l’appuntamento di novembre, che hanno pianificato nel loro ultimo incontro, non avrà luogo (Jack in realtà si è trovato un altro uomo). Ebbene, quel giuramento – e mi pare che nessuno l’abbia notato – getta una pesante ombra di ambiguità sul ruolo di Ennis nella fine di Jack, anche perché la scena del massacro sembra quasi un flash-back di Ennis per il ruolo che occupa nell’economia narrativa; forse è stato proprio Ennis ad assassinare o a far assassinare l’amato, e se così fosse sarebbe in pieno accordo con il carattere del personaggio: omofobo come il padre, che da bambino lo ha condotto insieme al fratello alla visione straziante del corpo castrato di un altro cow-boy, massacrato dal genitore e dai suoi sodali perché colpevole di amare un altro uomo, egli in realtà ama e odia Jack, ama e odia il suo desiderio, secondo un modello psicologico ambivalente che ricalca molto da vicino alcune forme di autentica schizofrenia; esso si risolverà patologicamente nell’assassinio quando Ennis avrà la conferma definitiva che il suo amante non è un vero uomo come lui, e ha rotto la purezza del sentimento assoluto che li legava dandosi anche ad altri. Tradendolo con altri maschi, Jack si inscrive nel registro dell’omosessualità, contaminando con il sesso promiscuo un amore virile che per Ennis doveva limitarsi alla sporadica reciprocità del sentimento esclusivo che li aveva legati fino a quel momento. Ma uccidendo Jack, Ennis uccide anche la sua parte più autentica, e non gli resterà che condurre una vita solitaria, espiando il suo dolore e la sua colpa nel ricordo perenne di un amore impossibile e fatale.